Solennità Maria Santa Madre di DioTe Deum di fine anno – Omelia

Solennità Maria Santa Madre di DioTe Deum di fine anno – Omelia

Giunti al termine di un anno sentiamo il dovere di rinnovare il nostro grazie al Signore. Abbiamo accolto la vita da Lui come un dono e come un compito. Cerchiamo di ripetere questa sera il nostro sì al Signore con tutta la disponibilità del cuore.
Non è che tutto vada bene, anzi, ma il fatto solo di vivere – di essere figli di Dio, di potere conoscere e amare e pregare, di potere stabilire con gli altri rapporti di amicizia –, questo solo fatto è motivo di gioia serena per la quale siamo riconoscenti a Dio (cfr. Gen 1, 27-28).
Ciascuno di noi in questi giorni sta tentando di fare un bilancio dell’anno passato, ripercorrendone i momenti belli e brutti, per misurare i desideri realizzati e le attese deluse. Ma forse, prima ancora di confrontare entrate e uscite per vedere se il saldo è positivo o negativo, vale la pena collocare la nostra esistenza all’interno di un orizzonte di fede.

Abbiamo celebrato il Natale e aperto l’Anno Santo, facciamo sì che il loro frutto rimanga attuale e presente per noi, per questo accogliamo il futuro con fiducia.
Sappiamo che nella storia dell’uomo è entrato una volta per tutte il Figlio di Dio, che quindi questa nostra storia, per quanto ambigua nei suoi esiti verificabili, contiene una promessa che niente e nessuno può cancellare (cfr. Gv 1, 14).
Vorremmo fare come i pastori: muoverci «senza indugio» per andare là dove la salvezza di Dio è presente e glorificare e lodare Dio per quanto abbiamo udito e veduto (cfr. Lc 2, 15-18).
Notate, che cosa hanno visto i pastori? Dice il Vangelo: «Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2, 16b). Dal punto di vista esterno hanno visto ben poco che possa dare speranza e consolazione. Hanno trovato un segno umilissimo, ma avevano udito il messaggio degli angeli (cfr. Lc 2, 8-14), cioè la parola di Dio, e questa Parola permette loro di riconoscere in quel Bambino il Salvatore, e quindi di trasformare la banalità della vita quotidiana in stupore, gioia, riconoscenza e speranza.
Vorremmo fare così anche noi; anche noi che vediamo ogni giorno lo spettacolo degli eventi del mondo e ne cogliamo facilmente la drammaticità. Vorremmo imparare a comprendere il compiersi del disegno di salvezza di Dio.
Certo le ingiustizie, le menzogne e le violenze che sembrano avvolgere il mondo non vengono da Dio e non ci indurrebbero a sperare. Tuttavia c’è in questo mondo una Parola forte di Dio, una Parola di promessa legata all’Incarnazione del suo Figlio: «[11]Oggi nella città di Davide è nato per voi un salvatore, che è il Cristo Signore (…) – quindi – [14]Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2, 11.14).
Fondati su questa promessa possiamo allargare e affinare lo sguardo e vedere non solo le brutture del mondo ma anche le sue aperture e le sue possibilità.

Non è un momento facile e tranquillo, lo ricordavo anche domenica scorsa. L’Europa da diversi decenni, non è più il cuore del mondo, e stiamo imparando poco alla volta a prenderne atto. Ci sono Paesi dove il fermento è più vivo, le trasformazioni sono più profonde e creative, le speranze sono più vivaci. Noi stiamo diventando una società vecchia, dal punto di vista demografico, sufficientemente ricca dal punto di vista economico e quindi un poco stanca, timorosa dei cambiamenti.
Dobbiamo per questo avvilirci? Per niente!
Il problema non sta nel voler essere a tutti i costi i primi o i più forti. Si tratta piuttosto di imparare a comprendere con lucidità quello che siamo e costruire con coraggio il meglio che possiamo diventare.

Siamo chiamati ad immaginare, inventare e costruire una società nuova che conservi il meglio del passato, non tutto il passato, e nello stesso tempo sappia acquisire valori nuovi per rispondere a sfide nuove. Mi sembra però che il culto del nostro passato ci faccia muovere molto lentamente.
Riusciremo a costruire un modello di esistenza nel quale acquistino una importanza maggiore l’equilibrio ambientale, la diffusione della cultura, la competenza tecnologica, la sensibilità artistica, la convivenza di diverse generazioni tra pronipoti e bisnonni, la cura della salute, la diffusione delle strutture di volontariato e di solidarietà tra le famiglie. Tutto questo però sarà possibile solo se riusciremo a proporre una visione dell’uomo e quindi del benessere umano che sia completo, una società in cui la persona umana sia considerata e favorita in tutte le sue dimensioni.
Il nostro rischio è che siccome facciamo fatica a proporre una visione condivisa dei valori umani, finiamo per promuovere solo la figura dell’uomo consumatore. Identifichiamo la felicità e la libertà con la possibilità di acquistare i molti e vari prodotti offerti dal mercato, e organizziamo la società per proteggere questa libertà. Ciascuno poi, diciamo, potrà costruire la sua esistenza secondo i valori in cui crede personalmente.
Ora, l’uomo consumatore può anche non sentire sempre la nausea di vivere, può anestetizzare l’angoscia addormentandosi con qualche droga sociale, ma rimarrà sempre un uomo annoiato e demotivato; può avere sprazzi di entusiasmo ma poi ricade inevitabilmente in periodi lunghi di depressione.

«Tutti quelli che l’udivano si stupivano delle cose dette loro dai pastori».
Perché si stupivano? Perché i pastori sono quelli non solo che non contano niente dal punto di vista sociologico nella società dell’epoca, che sarebbe il meno, ma soprattutto sono quello che nel proseguo del vangelo di Luca saranno pubblicani e prostitute, cioè sono persone non solo marginali nella società, ma sono peccatori di fatto, nel senso che, questi pastori non erano proprietari ma solo custodi del gregge di altri, e ogni tanto per campare un attimino meglio ammazzavano qualche pecora per mangiarsela e come tale rubavano. Essendo poi poveri non potevano osservare la Legge che prevedeva di pagare quattro volte il maltolto. Vivendo in campagna con gli animali non osservavano i precetti, a cominciare da quello del Sabato. A queste persone che sono marginali dal punto di vista sociale, dal punto di vista religioso, Luca dice che proprio a loro si aprono i cieli – è una immagine – per indicare che il mondo di Dio entra direttamente in contatto con loro, e questo avviene in barba a tutte le leggi, i regolamenti, le prescrizioni.
Allora la direzione verso la quale siamo chiamati a guardare è quella che scaturisce dal Natale che abbiamo celebrato. Dio si è fatto uomo, ha assunto una figura umana, un corpo, un volto, due mani. Non c’è dubbio che questa decisione di Dio abbia nobilitato la condizione umana. In mezzo a noi, come uno di noi, sta il Figlio di Dio (cfr. Mt 1, 23). Se prendiamo sul serio questa affermazione siamo costretti a riconoscere sul volto di ogni uomo, ogni uomo, la somiglianza con Dio (cfr. Gen 1, 26). Il valore di un Figlio che non può essere disprezzato e umiliato mai.
Ecco, siamo chiamati a costruire una società in cui questo riconoscimento sia il più esplicito e il più conseguente possibile; da qui viene la stima e il rispetto per la persona umana, per il corpo umano, per le relazioni umane, per la libertà del singolo, per il destino eterno di ogni uomo.
Perché il senso del Natale è precisamente questo: anche la solennità della Madre di Dio è una contemplazione del mistero del Natale, come se questo mistero fosse un diamante che noi possiamo osservare e gustare da tante sfaccettature, bene allora proseguiamo la contemplazione di cosa vuol dire essere figli di Dio.

Mentre affidiamo alla misericordia di Dio l’anno che abbiamo vissuto, lo preghiamo con insistenza perché ci doni l’entusiasmo di immaginare e costruire questa società a misura di uomo, per noi e per le generazioni che verranno dopo di noi.

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